All’esposizione di motivi di ricorso, è necessario anteporre una breve panoramica delle diverse posizioni emerse in dottrina e giurisprudenza circa l’esatta natura giuridica da ascrivere alla ricognizione di debito e alla promessa di pagamento.
Invero, solo dal loro corretto inquadramento dogmatico e dalla ricostruzione della loro disciplina giuridica in ambito civilistico, è possibile individuare il corretto trattamento tributario da applicare a queste due fattispecie.
Difatti, questi istituti non sono espressamente normati dal legislatore fiscale, ragion per cui, per costante giurisprudenza di legittimità, “la disciplina civilistica di un istituto è applicabile al campo tributario qualora l’ordinamento tributario non disciplini autonomamente la materia con proprie norme” (Agenzia delle Entrate, risoluzione n. 8/E del 12 febbraio 2010).
Ciò detto, la ricognizione di debito, insieme con la promessa di pagamento, trova la sua compiuta disciplina nell’art. 1988 del codice civile. Con la ricognizione di debito, il debitore di un rapporto obbligatorio (cosiddetto “rapporto fondamentale” o “sottostante”) dichiara di riconoscere l’esistenza del debito, dispensando il creditore a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale, l’esistenza del quale si presume fino a prova contraria.
La ricognizione di debito, pertanto, realizza un’inversione dell’onere della prova (cosiddetta “astrazione processuale” o “relevatio ab onere probandi”), in deroga all’art. 2697 del codice civile, secondo il quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
In particolare, chi riconosce l’esistenza del debito assume non già un’obbligazione, ma l’onere di dare l’eventuale prova contraria, anche per testi, dell’esistenza, validità, efficacia, esigibilità o non avvenuta estinzione del rapporto fondamentale, così come dei suoi limiti e contenuto, ove difformi da quanto riconosciuto.
In buon sostanza, la ricognizione di debito, è priva di risvolti sostanziali e non modifica la sfera patrimoniale della parte intervenuta in atto, limitandosi a cristallizzare un’obbligazione già in essere.
In tal senso si esprime, con orientamento consolidato, la giurisprudenza di merito e di legittimità (Trib. Milano sez. VII 2 dicembre 2014 n. 14329; Corte di cassazione sez. I 13 giugno 2014 n. 13506, Cass. Civile sez. II 17 giugno 2014 n. 13776).
Circa la sua natura giuridica, una parte della giurisprudenza considera sia la promessa di pagamento, sia la ricognizione di debito, negozi giuridici unilaterali e recettizi aventi effetti esclusivamente processuali.
In particolare, secondo la Cassazione i negozi in esame sono improduttivi di effetti sostanziali ed hanno esclusivamente un’efficacia probatorio-processuale.
Più precisamente, la Suprema Corte parla di “dichiarazioni unilaterali” dalle quali, però, non originano obbligazioni, bensì soltanto un effetto confermativo del rapporto sottostante (Corte di Cassazione, sentenza n. 4632 del 6 marzo 2004).
Per diversa impostazione, propugnata in dottrina e seguita da una parte della giurisprudenza, agli atti in esame andrebbe ascritta natura giuridica di mere dichiarazioni unilaterali rese dal debitore contra se; esse andrebbero ad incidere solo sul meccanismo dell’onere della prova mentre fonte di obbligazioni resterebbe in ogni caso il rapporto fondamentale sottostante (Commissione tributaria regionale Roma, sentenza n. 3686 del 5 giugno 2014; Corte di cassazione, sentenza n. 24804 del 21 novembre 2014).
Ad ogni buon conto, sia che si acceda alla tesi della natura dichiarativa della ricognizione di debito, sia che, invece, si propenda per la natura di mera dichiarazione unilaterale, entrambe le impostazioni tratteggiate concordano su un punto, quello dell’assenza di patrimonialità dei due istituti che, come tali, non determinano variazioni nei patrimoni dei loro autori e in quelli di soggetti che ne sono destinatari.
Così ricostruito il dibattito sulla natura giuridica del riconoscimento di debito e della promessa di pagamento, si può passare all’esame dei motivi di censura che rendono l’atto in questa sede impugnato illegittimo ed estremamente vessatorio per il ricorrente.