Diritto del Lavoro

Mancata contestazione

Sul punto è opportuno richiamare alcuni principi giurisprudenziali, ormai consolidati, in merito all’onere della contestazione tempestiva da parte del convenuto in occasione della sua costituzione per contestare le deduzioni dell’avversario.
Come è noto l’onere di contestazione tempestiva risulta dal carattere dispositivo del processo che comporta una struttura dialettica a catena.
La Suprema Corte ha stabilito che, in base all’art. 167 e 416 c.p.c., il convenuto ha l’onere di contestare specificatamente i fatti affermati dall’attore. L’onere di contestazione tempestiva riguarda però anche il ricorrente, perché tale onere è desumibile non solo dagli art. 167 e 416 c.p.c. ma deriva da tutto il sistema processuale come risulta dal carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena (Cassazione 04.12.2007, n. 25269, rivista “Il Lavoro nella Giurisprudenza” n.3/2008 pag.270; Cassazione 13 giugno 2005, n.12636; Cassazione 19 settembre 2003, n. 13924; Cassazione 13 settembre 2003, n. 13467; Cassazione 03 febbraio 2003, n.1562; Cassazione 13 giugno 2002, n. 8442; Cassazione 29 gennaio 2002, n. 1177; Tribunale di Milano 27 giugno 2006, n. 8524; Tribunale di Foggia, sez. lav., dott. Buonvino, 01.12.2006 ).
Dal sistema delle preclusioni, che comporta per entrambe le parti l’onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa, dai principi di lealtà e proibità del posti a carico delle parti e, soprattutto, dal generale principio di economia che deve informare il processo, avuto riguardo al novellato art. 111 della Costituzione.
Conseguentemente ogni volta che sia posto a carico di una delle parti, attore o convenuto, un onere di allegazione e prova, l’altra ha l’onere di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza ritenersi tale fatto pacifico e non più gravata la controparte del relativo onere probatorio, senza che rilevi la natura di tale fatto, potendo trattarsi di un fatto la cui esistenza incide sull’andamento del processo e non sulla pretesa in esso azionata.
Altra nota sentenza della Suprema Corte, che ci riserviamo di produrre, stabilisce che nel rito del lavoro, l’art. 416 comma 3 cpc, pone a carico del convenuto (o del ricorrente, ove nei suoi confronti venga ritualmente proposta una domanda riconvenzionale) un onere di contestazione specifico in relazione ai fatti costitutivi del diritto affermati dall’attore, dal mancato adempimento del quale discende un effetto vincolante per il giudice, che dovrà astenersi da qualsiasi controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo per ciò solo sussistente. Tale effetto, peraltro, si verifica non immediatamente, poiché nel comma 3 dell’art. 416 cpc non è convenuta la previsione di una decadenza, ma per effetto della preclusione conseguente al limite previsto dall’art. 420 comma 1 cpc, per la modificazione di domande, eccezioni e conclusioni già formulate, il cui superamento determina la preclusione della non contestabilità (tardiva) dei fatti (costitutivi del diritto) fino a quel momento non contestati.
Nel rito civile il legislatore ha previsto lo stesso meccanismo di preclusioni, difatti dalla lettura degli artt. 183 e 320 c.p.c. si evince che è possibile precisare o modificare la domanda, superato tale stadio, però, non è più possibile modificare la propria linea difensiva.
Sul punto la Giurisprudenza, in più e diverse occasioni, ha stabilito che comporta la sanatoria per acquiescenza (Cassazione n. 1864/95) la mancata contestazione tempestiva nella prima istanza o difesa successiva all’espletamento della prova (Cassazione n.3693/1995; Cassazione n.13011/1993; Cassazione n.2101/1997; Cassazione n.39/2008).
Ma v’è di più.
La Legge 18 giugno 2009, n. 69, è intervenuta su molte norme del codice di procedura, qua e là sostituendo, modificando, aggiungendo, con lo scopo dichiarato di snellire ed accelerare i processi civili.
In particolare si evidenzia che la modifica apportata all’art. 115 c.p.c., dove, in appena due righe, il legislatore ha decretato una vera e propria rivoluzione al regime probatorio delle preclusioni, elevando i fatti non contestati dalle parti, non a semplici elementi di prova, bensì ai fatti sui quali la prova è stata raggiunta.
Una semplice lettura del nuovo testo ci conferma in tale opinione. Infatti, al 1° comma, che recita; «il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero», è stata aggiunta la frase: «nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita».
Questa integrazione va vista sotto un duplice aspetto, e ciò ne pone in risalto l’inappropriata collocazione.
La rubrica dell’art. 115, «Disponibilità delle prove», è chiaramente diretta, non a valorizzare una prova piuttosto di un’altra, bensì a porre dei limiti alle iniziative istruttorie del giudice, limiti, peraltro, in varie occasioni superato (come ad es., l’art. 281 ter c.p.c.), e del resto, la norma stessa, in apertura, fa «salvi i casi previsti dalla legge», uno dei quali è già presente nel secondo comma dello stesso articolo.
In sostanza, qui si vuole affermare che il giudice, nel pronunciare la propria decisione, non può valersi di prove proposte da lui stesso (il che, come abbiamo detto, è smentito in varie occasioni dal diritto positivo) o da altri soggetti che non siano parti del giudizio (il che sarebbe, in realtà, piuttosto problematico), ma solo sulle prove «proposte dalle aperti o dal pubblico ministero», nel caso in cui quest’ultimo è parte necessaria. L’art. 115 pone dunque un limite alle iniziative del giudice, e ciò è confermato dall’uso del verbo “deve” e non “può”. Si tratta quindi di una conferma del principio già affermato dall’art. 112 c.p.c. con particolare riguardo alle domande (di merito) ed alle eccezioni non sollevabili d’ufficio.
Sembra, tuttavia, assai chiaro, che il termine di «prove proposte dalle parti» non equivale a prove acquisite al processo mediante la loro produzione (documenti) o assunzione (deposizione di testimoni). L’art. 115, nella sua originaria formulazione, si riferisce pertanto alle sole iniziative istruttorie delle parti, impregiudicata ogni valutazione del giudice sulla rilevanza della stesse una volta acquisite.
Cosa significa, allora, l’equiparazione dei “fatti non specificatamente contestati” alle prove proposte dalle parti?
Parrebbe, a prima vista, seguendo l’intento del legislatore esplicitato nella rubrica, che il giudice deve fondare la propria decisione, non su qualsiasi fatto che pervenga alla sua conoscenza al di fuori del processo, ma solo sui fatti che non sono contestati da una parte, ma per ciò solo debbono essere affermati dalla controparte. La non contestazione presuppone necessariamente l’affermazione, o meglio, l’allegazione di un fatto.
Per questo aspetto, dunque, la modifica apportata all’art. 115 c.p.c., sembra rispettare, sia pure nei limiti che si sono visti (“salvi i casi previsti dalla legge”), il principio dispositivo.
Se non che, l’interpretazione della novella non può arrestarsi qui, in quanto il legislatore del 2009 è andato più oltre, poiché, se da un lato pone la regola per cui le iniziative istruttorie debbono provenire dalle parti, d’altro lato non esprime alcun criterio di valutazione su di esse, per l’evidente ragione che una prova proposta lascia il tempo che trova se si rivela del tutto insufficiente ed ultronea. D’altro canto è, altrettanto vero che sarebbe incongruo che il giudice dovesse porre a fondamento della propria decisione fatti che non abbiano il crisma della verità.
I fatti non contestati specificatamente, e qui si conferma l’inopportuna collocazione dell’inciso, sembrano invece assumere il valore di fatti provati con gli ordinari mezzi istruttori, che altrimenti nessun onere avrebbe il giudice di tenerne conto nella sua decisione.
Né parrebbe invocabile il disposto dell’art. 116 c.p.c., secondo cui il «giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento», perché nel nostro caso il legislatore ha saltato a piè pari le prove, arrivando direttamente ai fatti non contestati.
Diciamo di più che, per questa ipotesi, il “deve” non assume affatto le caratteristiche di un limite, come è per le prove proposte dalle parti, ma un vero e proprio obbligo per il giudice di porre a fondamento della decisione i fatti non contestati, che sono il risultato di un comportamento omissivo della parte e non di una prova semplicemente proposta, né più e né meno dei fatti sui quali la parte ha giurato (o non giurato) oppure ha confessato.
Tali preclusioni, quindi si estendono a tutte le attività svolte nell’ambito del processo tra cui, ed in particolare, le prove testimoniali.

Mancata contestazione