Diritto Tributario

Errata applicazione art 4 e 5 – principio personalità sanzione

Falsa ed errata applicazione degli articoli 4 e 5 del D.LGS 472 del 1997 – violazione del principio di personalità della sanzione.

Con l’avviso di liquidazione in questa sede impugnato, vengono altresì applicate le sanzioni nella misura del 120% dell’imponibile accertato.
L’applicazione delle sanzioni appare ingiusta, priva di giustificazione e ulteriormente vessatoria per il ricorrente.
Principio cardine del sistema sanzionatorio, invero, è quello della responsabilità personale, cioè della riferibilità della sanzione alla persona fisica che ha commesso o ha concorso a commettere la violazione.
Tale principio impone la sussistenza di due elementi di carattere soggettivo: l’imputabilità (art. 4), ossia la capacità di intendere e di volere, da valutarsi secondo i criteri del codice penale, e la colpevolezza, intesa come il nesso psichico tra il soggetto e il fatto tipico, cioè l’elemento psicologico, nella forma del dolo o della colpa.
Pertanto, ai fini dell’applicazione della sanzione, devono ravvisarsi in capo all’autore della violazione sia l’imputabilità che la colpevolezza.
Circa la colpevolezza, il legislatore non definisce espressamente la nozione di colpa, la quale è desumibile dai principi generali, secondo cui la condotta è colposa se la violazione, non voluta dall’agente, è conseguenza di negligenza, imprudenza o imperizia. La colpa, invece, è definita grave “quando l’imperizia o la negligenza del comportamento sono indiscutibili e non è possibile dubitare ragionevolmente del significato e della portata della norma violata e, di conseguenza, risulta evidente la macroscopica inosservanza di elementari obblighi tributari” (art. 5, comma 3).
Ne consegue che non è assimilato a colpa grave l’inadempimento occasionale ad obblighi di versamento del tributo. E’ dolosa, invece, “la violazione attuata con l’intento di pregiudicare la determinazione dell’imponibile o dell’imposta ovvero di ostacolare l’attività amministrativa di accertamento” (art. 5, comma 4).
Risulta evidente, anche in base a quanto argomentato in narrativa, che nessuna forma di responsabilità, neanche a titolo colposo, può ascriversi al ricorrente, il quale non ha espresso la sua volontà liberamente ed in modo consapevole né ha potuto opporsi alla violenza su di lui esercitata dai convenuti.
Nel caso in esame, il ricorrente non avrebbe mai sottoscritto la scrittura privata, utilizzata dai creditori a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo, se il suo consenso non fosse stato estorto con minacce di morte.
Giova richiamare un arresto giurisprudenziale della Suprema Corte che ha affermato: “….la minaccia, per essere idonea ad invalidare il negozio, deve essere specificamente finalizzata ad estorcere il consenso alla conclusione del negozio di uno dei contraenti, provenire dal comportamento posto in essere da una delle parti o da un terzo e risultare di natura tale da incidere con efficienza causale sul determinismo del soggetto passivo che in assenza della minaccia non avrebbe concluso il negozio” (Cassazione Civile, sez. I, 22 luglio 2004 n .13644).